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“..gli EMB” hanno davvero stufato”.

Ecco una delle più orgogliose frasi no-sense dilagata negli ultimi tempi.

In un tempo moderno in cui il bacino sulla bua o il proibire di fare il bagno dopo mangiato dovrebbero essere favole sulle quali sorridere e nulla più, stiamo, in realtà, vivendo un vero e proprio rifiuto della medicina basata sulle prove di efficacia.

Non saremo di certo qui a scrivere noiosamente che evidence si traduce in effetti con “prove di efficacia” e che evidenza ha, ragionevolmente, tutto un altro significato. O che l’esperienza non ha valore nei confronti della dimostrazione scientifica, perché, di fatto, un suo valore (positivo) in parte lo ha, come proveremo a vedere in seguito.

Lungi da me il comportamento presuntuoso con le proprie (odiose e, soprattutto, non utili) prese di posizione da social:

  • “..beh, hai qualche studio scientifico alla mano che dimostra la cosa che hai appena detto?”
  • “gli studi non dicono questo..”
  • “..ok, studi a riguardo?”

E via discorrendo.

Così, infatti, non si va da nessuna parte e non si costruisce nessun confronto.

Cerchiamo di ragionare e andiamo oltre.

Prendendola davvero alla larga, ci siamo mai chiesti perché esistono centinaia di filosofie, metodiche, “filoni” di valutazione e trattamento?

E soprattutto, non è forse vero che, alla fine dei conti, vanno grossomodo tutte bene?


Ah perché tutto quel che fai tu “è evidence-based?!”

Ma certo che no. Ma come si fa?

Abbiamo a che fare con persone che pensano, vivono, si muovono, credono a qualcosa o non credono a qualcosa, elaborano esperienze o sintomi in maniera differente, a fare i trattamenti ci vengono poi non ci vengono.. e poi ci siamo noi, diversi dai professionisti arruolati negli studi, magari vediamo qualcosa di diverso dagli altri, ci sfugge qualcosa, ci alziamo “girati” la mattina e conduciamo un’anamnesi superficiale e il paziente mica ce le dice quelle 3 informazioni determinanti, e così via per altri milioni di esempi.

C’è un però.

La “filosofia” (così orrendamente chiamata da qualcuno) della medicina basata sulle prove di efficacia non è una chiave di lettura religiosa e dogmatica del comportamento clinico, piuttosto la base, sì, la base, da cui partire.

Da qui si parte. E da qui si gestiscono il dubbio e le incertezze cliniche quotidiane che la fisioterapia ha intrinsecamente nella propria essenza, così come la medicina in generale.

In effetti, dobbiamo ricordare che l’insieme dell’evidence-based medicine si interseca con quello dell’insieme “paziente” e con quello dell’expertise (quest’ultima tradotta, cortesemente, con “competenza” e non “esperienza”, perché potrei infilarmi le banane nelle orecchie per 30 anni, ma questo agire mica diventa appropriato solo perché lo faccio da tanto! Che discorso è?).

Tornando al discorso della base di partenza, l’EMB costituisce, appunto, la base da cui partire.

Infatti, la letteratura scientifica ci consente di conoscere, con un certo grado di probabilità, ad esempio:

  • le traiettorie prognostiche di alcuni disturbi, come per esempio il low back pain di natura muscoloscheletrica (o non specifico) acuto che, in assenza di fattori di rischio per la cronicizzazione (fisici, cognitivi, psicologici, sociali, comportamentali o relativi allo stato di salute generale), si risolve fondamentalmente da solo nel giro di qualche giorno o settimana. Già, a prescindere dal thrust, dall’uovo all’occhio di bue spalmato sulla schiena, dalle piastre calde appiccicate alla pelle fino alle smanacciate più disparate o alle correnti di pensiero più trascendentali;
  • le linee guida per l’inquadramento “diagnostico” di alcuni disturbi muscoloscheletrici (es: “divisione” del low back-related leg pain in dolore radicolare/radicolopatia o dolore riferito);
  • di avere un’idea dell’efficacia del trattamento che magari abbiamo proposto al paziente quando ci chiediamo “il mio trattamento ha dato un valore aggiunto rispetto al non fare nulla o rispetto ad altro che poteva essere somministrato al paziente?”;
  • i campanelli d’allarme (red flags);
  • tante altre cose.


Un problema di outcome?

Potrebbe esserci un problema di outcome nell’ambito dei disordini muscoloscheletrici?

Come detto, esistono centinaia di correnti di pensiero, e tutte “funzionano” e tutte vanno più o meno bene, alla fine.

In effetti, gli esiti su cui verte la nostra professione sono, principalmente, il dolore e la disabilità.

Facciamo un esempio pratico, non il solito “non è vero che su PubMed c’è tutto e il contrario di tutto”, visto che si ripete – noiosamente – solo quello, andiamo oltre.

“Gli articoli sono fatti di carta e non sono spunti rilevanti di carattere clinico.”

“Non c’è tempo per aggiornarsi in autonomia.”

“Non c’è la voglia di aggiornarsi in autonomia.”

“Lo faccio da 5-10-60 anni, faccio così” (vedi discorso banane di prima).

L’esperienza lavorativa è, senza ombra di dubbio, un fattore positivo IMPORTANTISSIMO. Aiuta nella gestione delle persone (da un punto di vista relazionale, umano o psicologico), migliora la capacità di avere un tocco dolce, “morbido”, “ampio”, aumenta la capacità di gestione del tempo e delle risorse, aiuta, perché no, nel pattern recognition (seppur, magari, con maggior rischio di incorrere in errori?), migliora la capacità di fornire feedback o istruzioni sugli esercizi, di captare qualche campanello d’allarme (pazienti particolari? red flags?), di fornire consigli utili e pratici in funzione dello stile di vita del paziente, di avere un atteggiamento sicuro e carismatico, e così via.

Ma grazie al cielo (meglio grazie alla scienza e ai cervelli che funzionano e si pongono domande) le cose cambiano e, seppur con qualche eccezione, gli sciamani non ci sono più.

In effetti, salvo rari casi in cui, ovviamente, ci sono elementi di attenzione che devono essere necessariamente il primo aspetto da valutare, male che vada, cosa può succedere?

  • Può succedere che il paziente ha ancora dolore, è scontento e va da un altro collega;
  • Può succedere che al paziente non passa il dolore alla schiena e parla male di noi in giro;
  • Può succedere che il paziente “sta meglio” ma non è poi così soddisfatto e va da un altro e non ricerca più cure per il proprio problema.

In ogni caso, in effetti, riconosco che in quanto fisioterapisti sia una tragedia.

Ma non muore mica nessuno. Ecco uno dei “piccoli” cavilli.


Facciamo un parallelismo estremamente forzato con la medicina d’urgenza e il pronto soccorso.

In pronto soccorso e in medicina d’urgenza gli outcome cambiano.

Per esempio, un outcome non più continuo (dolore valutato con NPRS), ma dicotomico, potrebbe essere morte sì/morte no.

Le LINEE GUIDA di gestione dei pazienti che si recano in pronto soccorso provengono dalla stessa sorgente da cui provengono le pubblicazioni scientifiche nell’ambito della fisioterapia (!!!): cioè qualcosa fatto secondo il metodo scientifico (osservo qualcosa, mi faccio qualche domanda, faccio qualcosa con un metodo preciso e verifico un’ipotesi, e così via).

L’unica cosa è che se le situazioni in pronto soccorso vengono gestite un po’ “alla buona”, qualcuno rischia di lasciarci le penne mentre, mal che vada, da noi, dove i pazienti tendenzialmente hanno problematiche di tipo benigno (nell’ambito muscoloscheletrico), no.

Perché se il metodo scientifico è il medesimo loro si (e meno male) e noi no?

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