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Ogni giorno come fisioterapisti utilizziamo diversi strumenti, come le tecniche manuali o l’esercizio, per raggiungere i nostri obiettivi professionali: il miglioramento del dolore, della disabilità e delle condizioni di salute del paziente. Quello che invece è stato per lungo tempo poco considerato ma che è emerso prepotentemente negli ultimi anni alla luce degli ultimi studi sono la gestione del placebo e l’eliminazione delle risposte nocebo come un’ulteriore strategia clinica, tema che ha generato anche un ampio dibattito nella ricerca sulla terapia manuale.

Ne parliamo con Giacomo Rossettini, fisioterapista, docente presso l’Università di Verona e di Genova, che ha completato il proprio percorso di dottorato di ricerca proprio sui fattori contestuali ed effetti placebo e nocebo.

Ha all’attivo numerose pubblicazioni sul tema, tra cui “Enhance placebo, avoid nocebo: How contextual factors affectphysiotherapy outcomes” e “Clinical relevance of contextual factors astriggers of placebo and nocebo effects inmusculoskeletal pain” che vi consigliamo di leggere prima di proseguire con la lettura dell’intervista.

Abbiamo raccolto le vostre domande che avete fatto sul nostro gruppo Facebook. A tal proposito vi invito ad iscrivervi per poter partecipare direttamente con delle vostre domande alle nostre iniziative future. Iniziamo!

 


Ciao Giacomo, grazie per la disponibilità, visto l’argomento del tuo dottorato abbiamo pensato di raccogliere alcune domande degli utenti sui nostri canali social per poter sviscerare meglio l’argomento anche e soprattutto in relazione alla pratica clinica di tutti i giorni.

Buongiorno a Voi e grazie per avermi concesso l’opportunità di apportare il mio contributo, con il mio punto di vista e la mia esperienza, su un tema così caro e di rilevante impatto nell’agire del fisioterapista.


Come spieghi il concetto di placebo al paziente medio e come lo utilizzi per influenzare il trattamento?

Nella mia pratica con il paziente non utilizzo il termine “placebo”. Il paziente infatti potrebbe esserne influenzato negativamente, associando a quella parola un significato svilente, di trattamento finto, inutile o ingannevole. Con il paziente utilizzo più spesso il concetto di “effetto contesto”, inteso come l’effetto positivo o negativo che consegue la relazione tra il paziente ed i diversi fattori/elementi del contesto presenti in clinica, che sono in grado di influenzare l’esito terapeutico. Lo adopero quotidianamente come “ingrediente” arricchente e valorizzante ogni intervento fisioterapico.


Come gestisci ed organizzi l’effetto a breve ed a lungo termine? Come farlo capire al paziente?

Confrontandomi con il paziente cerco di fargli capire che “l’effetto contesto” si realizza ogni qual volta entra in relazione con qualsiasi procedura di carattere sanitario (ad esempio valutativa o interventistica). “L’effetto contesto” si somma alla componente specifica della terapia, ed è quindi fondamentale tenerne conto e cercare di sfruttarlo per il miglioramento dei suoi sintomi, sia nel breve che nel lungo termine.


Nomenclatura: trovi che spesso si confondano gli effetti non specifici con l’effetto placebo? La storia naturale in quale contenitore si inserisce? La regressione alla media? Il paziente gentile? Quando si parla di alte percentuali di effetti non specifici chi la fa da padrone? La storia naturale o il colore della polo?

I concetti di regressione versi la media, storia naturale ed effetto Hawthorne sono esempi di ciò che ha effetto sull’esito del trattamento in maniera aspecifica, ma vanno distinti dagli “effetti contesto”. Sono stati studiati ed è stato dato loro un nome ed una definizione, ma l’evoluzione di questi concetti nel tempo e la loro applicabilità ai contesti clinici rappresentano un argomento troppo vasto per darne risposta in questa intervista. Per chi fosse interessato, troveranno vasto spazio per la discussione e l’analisi nel mio corso. Posso solo dirvi che esiste una scala di efficacia tra i diversi fattori di contesto e che anche il camice ha la sua importanza nell’influenzare la sintomatologia del paziente!

 


Può essere considerato etico sfruttare le aspettative del paziente su una terapia senza prove a supporto della sua superiorità rispetto ad altri trattamenti, con l’obiettivo di massimizzare l’effetto placebo? Fino a che punto possiamo spingerci?

Gli studi ci dicono che è etico: a parità di evidenza di non superiorità tra due o più terapie è utile sfruttare l’aspettativa del paziente verso una specifica soluzione terapeutica per migliorare la sintomatologia e massimizzare “l’effetto contesto”.

Tuttavia è fondamentale ricordarci che siamo professionisti sanitari e quindi dobbiamo rispettare il codice deontologico durante la scelta della terapia salvaguardando i principi di autonomia, non maleficenza, di beneficienza e di equità. In sostanze se assecondare l’aspettativa del paziente si traduce in un intervento dannoso è doveroso evitarlo.


In relazione anche alla domanda di prima poniamo un esempio pratico proposto sui canali social “Es. Pz medico prossimo alla pensione (vecchio stampo) con mal di schiena da 6 mesi che va e viene: ha fatto da solo la sua diagnosi (lombalgia) e viene da me convinto che sia necessaria una tecar (consigliato da un suo collega fisiatra).
COSA FACCIO? Sfrutto il placebo per poi spiegare la realtà oppure smonto la sua convinzione? P.S. ho detto tecar, ma posso dire anche “massaggino”.

Domanda interessante e complessa. Mi sta chiedendo una risposta sul mio “sapere”. Cioè “cosa so io essere meglio per il paziente?”. Ma in realtà, di fronte al paziente, noi dobbiamo “saper essere” fisioterapisti, quindi saper trovare la chiave di lettura del nostro paziente. Crede veramente nella tecar/massaggino? Si fida del parere del suo collega? La tecar/massaggino può servirmi come ponte per instaurare una relazione terapeutica utile a smontare eventuali convinzioni scorrette? E’ rispondendo a questo domande che si potrà scegliere che strada prendere.


Come gestisci e come consigli ai colleghi di gestire le aspettative di un paziente con dolore cronico/persistente che pensa che niente lo possa far stare bene ed ha paura di muoversi e sollevare pesi, quando invece dalla tua valutazione ed anamnesi hai constatato che le sue credenze, paure ed aspettative dovrebbero essere modificate poiché possa tornare a muoversi senza dolore e paura?

Questa è una bella domanda! A volte vorrei porla ad uno psicologo (risatina). Scherzi a parte, abbiamo alcuni strumenti per educare il paziente, e la fiducia che può riporre in noi grazie “all’effetto contesto” può spianarci la strada.


Utilizzi degli strumenti per quantificare l’aspettativa del paziente? Nel caso sia scarsa e volessi incrementarla, come valuti di esserci riuscito?

Registrare l’aspettativa del paziente di fronte ad una terapia è fondamentale. Esistono diversi strumenti per analizzare l’aspettativa del paziente. Ad esempio durante il colloquio anamnestico è possibile usare domande dirette per capire l’aspettativa del paziente verso una specifica terapia o indagandola indirettamente analizzando le precedenti esperienze.


C’è forte evidenza che la preferenza di trattamento migliori l’outcome? O quando si parla di aspettativa si intende l’aspettativa di efficacia della fisioterapia?

L’aspettativa e la preferenza del paziente rappresentano due importanti fattori contestuali. L’aspettativa di successo può essere sia rivolta ad una terapia (es. esercizio) oppure più globalmente all’ambito sanitario con cui il paziente interagisce (es. fisioterapia). La preferenza invece è maggiormente incentrata verso uno specifico intervento fisioterapico (es. terapia manuale rispetto all’esercizio).


È professionale “accontentare” il pz su interventi low-value? O per “preferenze del pz” si intende prendere delle decisioni terapeutiche condivise rimanendo nell’alveo dei trattamenti raccomandati?

Entrambi questi elementi vanno considerati attentamente durante la relazione con il paziente, ma da soli non giustificano la scelta di un intervento rispetto ad un altro. La scelta va sempre calibrata tenendo conto anche della pratica basata sulle prove di efficacia (EBP) e la propria esperienza di clinico.

 


Parlando di fattori contestuali ambientali, quali sono quelli che amplificano maggiormente l’effetto del trattamento e che quindi tutti noi dovremmo utilizzare nella nostra pratica clinica? Parlo ad esempio delle caratteristiche dello studio, piuttosto che dell’outfit del terapista o del suo modo di presentarsi al paziente.

Partiamo dal presupposto che non è il marketing che fa il fisioterapista di alto profilo, come sembrano suggerire alcune correnti attuali. E, dato che i pazienti non sono tutti uguali, le scelte non devono essere le stesse per tutti i pazienti. Ad esempio, ho un paziente iperattivo che non si rilassa mai, una luce calda e soffusa mi aiuterà a farlo rilassare. Ma se voglio che spinga in un esercizio, un ambiente ben illuminato di luce naturale sarà la risposta giusta. L’eccellenza significa fare la cosa giusta, rispetto alla persona giusta, nel momento giusto, nella giusta misura, nel modo giusto e per il giusto motivo, diceva Aristotele.


Come utilizzi e ti senti di consigliare ai colleghi di utilizzare i fattori di contesto per incrementare il placebo nella clinica di ogni giorno, a fronte dei risultati ottenuti dai tuoi studi?

Aver dedicato questi ultimi anni all’approfondimento “dell’effetto contesto” mi ha fatto crescere come professionista, fornendomi sia un modello interpretativo utile a decifrare le risposte positive (placebo) e negative (nocebo) del paziente, che un nuovo strumento terapeutico per rendere più efficaci i miei interventi. Quindi sì, utilizzo i fattori di contesto nel somministrare la miglior terapia esistente di comprovata evidenza scientifica, in quanto non solo è etico e inevitabile, ma arricchente. Mi sento di consigliarlo ai colleghi fisioterapisti e, in generale, a tutti i professionisti sanitari.


Il corso di Giacomo Rossettini

Parleremo di tutto questo e molto altro al corso con Giacomo Rossettini che terremo a Rimini l’11 e 12 gennaio 2020. 

Questo corso si pone nel panorama formativo italiano come una risposta ai diversi interrogativi che il clinico si pone quotidianamente: “Perché il paziente presenta una variabilità nella risposta terapeutica?”; “Com’è possibile migliorare il risultato terapeutico nel paziente legandolo maggiormente al clinico?”, “Com’è possibile ridurre il rischio di perdita di un paziente?”.
A seguito dell’evento formativo il discente acquisirà conoscenze teoriche ed abilità pratiche immediatamente spendibili nei propri setting clinici volte a stimolare gli effetti placebo e a limitare gli effetti nocebo attraverso l’adeguato utilizzo dei fattori di contesto.

Per leggere tutti i dettagli clicca il link qui sotto!