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Visto che il ruolo dell’effetto placebo in fisioterapia deve essere sempre più considerato in fisioterapia alla luce degli ultimi studi, abbiamo pensato di porre alcune domande, alcune proposte da voi nel gruppo Facebook, al maggiore esperto mondiale sull’effetto placebo, il prof. Fabrizio Benedetti.


Quali sono gli elementi, i fattori contestuali o altro che dovremmo considerare maggiormente come fisioterapisti nel trattamento di un paziente?

Certamente tutto il contesto gioca un ruolo chiave nel risultato terapeutico, tuttavia l’elemento principale del contesto è il terapeuta stesso, il quale deve entrare in alleanza terapeutica col proprio paziente. E’ prima necessario individuare i bisogni del paziente, e poi soddisfare tali bisogni. Per esempio, ci sono pazienti cognitivi (razionali) che hanno bisogno di conoscere i dettagli di una terapia, mentre i pazienti emotivi richiedono più una relazione empatica col proprio terapeuta. Fornire i dettagli di una terapia a questi ultimi serve poco, anzi può addirittura produrre effetti negativi. Insomma, oggi l’interazione terapeuta-paziente deve essere personalizzata, ed esistono dei questionari per far ciò.


Come comportarsi di fronte a un paziente che ha un’aspettativa positiva estremamente forte rispetto a una terapia che la scienza ci dice avere un effetto uguale non superiore al placebo? Quanto può essere utile ed etico, in fisioterapia, “cavalcare” l’onda dell’aspettativa del paziente?

Se il paziente ha un’aspettativa positiva in una terapia che si sa sia inefficace rispetto ad un’altra, è ovvio che va convinto delle sue aspettative sbagliate. Tuttavia, una volta identificata una diagnosi precisa e stabilito che il paziente ha solo bisogno di empatia e rassicurazioni (poichè non c’è nulla di grave), è dovere del terapeuta fornire questo supporto psicologico, magari con l’aiuto di uno psicologo.


Ha senso spiegare l’effetto placebo al paziente per motivare gli esiti dei trattamenti a cui è stato sottoposto non basati sull’evidenza scientifica?

Sì, può aver senso, in modo da fargli capire che il suo stato psicologico gioca spesso un ruolo chiave. Dopodichè, nel caso esista una terapia riconosciuta efficace (ma magari sconosciuta al paziente), va convinto a sottoporsi a quest’ultima.

Dobbiamo sempre dare queste spiegazioni al paziente? Con quali pazienti sì e con quali no? Cosa cambia? 

Come ho detto nella risposta alla domanda 1, esistono pazienti cognitivi-razionali, e pazienti emotivi. Sebbene la loro identificazione richieda tempo e personale addestrato, e quindi sia più praticabile in un ricovero ospedaliero rispetto ad un ambulatorio, questo approccio produce risultati eccellenti, poichè non fa altro che potenziare l’alleanza terapeutica. In altre parole, questo approccio personalizzato fa leva sui bisogni individuali del singolo paziente, a cui vanno date le spiegazioni appropriate alla sua personalità razionale o emotiva.


Quali letture si sentirebbe di consigliare, oltre ai suoi libri, per noi terapisti, per integrare al meglio nel nostro trattamento l’effetto placebo, riducendo al minimo l’effetto nocebo?

Sta per uscire un eccellente libro sul “dialogo e la cura” (Pensiero Scientifico Editore), della psicologa e psicoterapeuta Silvana Quadrino, una della maggiori esperte nel campo della comunicazione in terapia.


Esistono studi/ricerche sulla correlazione tra delle immagini proposte al paziente ed aumento delle sue aspettative?

Qualsiasi immagine e procedura che potenzi le aspettative del paziente può indurre potenti risultati terapeutici. Sarebbe forse meglio focalizzarsi su video e realtà virtuale piuttosto che su singole immagini. Per esempio, le tecniche e i metodi di realtà virtuale che oggi abbiamo a disposizione ci permettono di immergere il paziente in un ambiente virtuale positivo, oggi spesso usato durante svariate procedure mediche.


 

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