I professionisti sanitari dovrebbero curare la loro ignoranza, prima di curare una persona?

Traduzione dell’articolo di Chiara Gusmini "Should you first cure your ignorance, healthcare professionals?" pubblicato sul British Journal of Sports Medicine…

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Sono una donna di 38 anni e ho vissuto per 25 anni con il dolore cronico. Non l’ho mai nascosto a nessuno – ho cercato aiuto ovunque ma nessuno è stato in grado di aiutarmi a identificare la natura della mia condizione. Ho imparato da sola delle strategie per gestire il mio dolore, finché sono stata inaspettatamente introdotta a una gestione della mia condizione basata sulle migliori evidenze correnti, che ha cambiato la mia vita significativamente.


Come è iniziato il mio dolore persistente?

La mia storia è iniziata all’età di 12 anni, quando sono stata spinta a terra, fuori da scuola e sono caduta, ho cominciato a sentire dolore alla schiena. Negli anni seguenti, il dolore persistente alla colonna vertebrale fu diagnosticato come ‘dolore della crescita’. Verso i 20 anni il dolore si diffuse. Ho sofferto di dolore diffuso a testa, collo, schiena, braccia, gambe, all’intestino, così come di insonnia. I miei dolori non erano visibili attraverso la radiografia, la risonanza magnetica e non erano riscontrabili nelle analisi del sangue. Ero l’unica persona in grado di percepirli. Medici e professionisti sanitari conclusero che i miei dolori si trovavano nella mia testa.


Trattamenti iniziali e diagnosi

Le medicine che mi erano state prescritte non funzionavano e ovviamente questo mi rese piuttosto ansiosa. L’ansia divenne poi un problema e mi sentii come se fossi stata incolpata per tutti i malesseri e dolori.

Non stavo migliorando con nessuno dei trattamenti provati (massaggio, manipolazioni, laserterapia, diatermia, agopuntura, etc.), così si dedusse che la causa di tutto fosse la mia fragilità psicologica. La parola ‘fibromialgia’ entrò poi a far parte della mia vita, grazie a un dottore che era sicuro che la mia sofferenza non potesse essere esclusivamente di natura psicologica.

Chiaramente questa fu un’importante pietra miliare per me. Sebbene avere una ‘specifica’ diagnosi non modificasse la qualità della mia vita o il mio dolore, avevo un’etichetta e questo mi rassicurava. Tuttavia, i miei dolori e il modo in cui le persone (amici, parenti, fisioterapisti, medici e allenatori) mi guardavano, rimase lo stesso: fibromialgia o meno, ero una lamentosa psicopatica. Realizzai che, sebbene il mio dolore non mettesse in pericolo la mia vita, ne condizionava gravemente la qualità.


Come ho imparato a gestirmi da sola?

Gradualmente cominciai a capire che, se nessuno era in grado di aiutarmi, avrei dovuto farlo da sola. Trovai uno psicologo con cui discutere del mio dolore, delle percezioni che avevo di esso, del suo significato. Il mio obbiettivo non fu più quello di eliminare il dolore ma di resistergli senza crollare. Scoprii diversi stratagemmi per alleviare il dolore (come l’utilizzo del calore e della meditazione) e l’obbiettivo finale fu quello di diventare in qualche modo più forte di lui.

Cercai anche materiale educativo sulla fibromialgia e sul dolore cronico ma trovai spesso informazioni incomprensibili, inclusi articoli, che furono davvero inutili. Decisi perciò di focalizzarmi sul mio benessere e a quel punto un inaspettato miracolo accadde. Ero determinata a tornare fisicamente sui miei passi e realizzai che avevo bisogno di un corpo più forte. Tutti gli anni passati ad ascoltare i medici che mi consigliavano di non muovermi o esercitarmi, mi avevano resa debole e fuori forma, perciò non ero più disposta ad ascoltarli.


La mia svolta

Durante la mia ricerca di qualcuno che potesse aiutarmi, sono per caso entrata in contatto con un fisioterapista con alle spalle un’estesa formazione sul dolore e la fisiologia dell’esercizio. Parlò di dolore con cognizione di causa e fu la prima persona a farlo in 25 anni. Disse che mi avrebbe aiutata e che insieme ce l’avremmo fatta. Mi sono fidata e ci siamo riusciti. Abbiamo trovato un modo per gestire il mio dolore persistente, attraverso l’esposizione a movimenti ed esercizi considerati in origine dolorosi. Per cominciare, abbiamo testato come io rispondessi a differenti tipologie e dosaggi di esercizio.1 Abbiamo lavorato insieme a un neurologo che è stato in grado di regolare la mia terapia farmacologica e che mi ha aiutato a comprendere quale tipo di cura fosse per me di maggiore utilità.

Il fisioterapista fu in grado di condividere con me dati concreti e degni di nota riguardo la mia presentazione clinica, esponendo termini come ‘allodinia’, ‘iperalgesia primaria e secondaria’, ‘sommazione temporale’ e ‘ipoalgesia indotta dall’esercizio’ – sostanzialmente quello che io stavo provando, piuttosto che delle diagnosi che, a mio parere, sono spesso solamente delle etichette ingannevoli. A causa della tipologia di presentazione del mio dolore persistente (un tipo misto neuropatico-nociplastico.2), i farmaci antinfiammatori, così come gli oppioidi, sono nel migliore dei casi inutili, e alla peggio dannosi.


Come sto oggi?

Attualmente mi alleno con regolarità per sentirmi bene e sto ancora seguendo la prescrizione del mio neurologo. Di tanto in tanto sento ancora dolore. Non scompare del tutto o per sempre; tuttavia adesso l’esperienza dolorosa mi provoca meno angoscia, perché so da dove provenga, cosa posso fare per affrontarla e che c’è qualcuno che può aiutarmi. La mia qualità di vita è davvero buona adesso.


Le frustrazioni del mio percorso

Guardando indietro al processo che ho attraversato, la mia prima reazione al mio nuovo stato di benessere è rabbia. Come è possibile lasciare che una persona viva nel modo in cui ho vissuto io? Nessuno può realmente comprendere come sia la vita di una persona che soffre di dolore cronico. Ciò che mi stupisce è la totale mancanza di empatia di cui ho fatto esperienza, da paziente che soffre di ‘dolore persistente’. Il mio tipo di dolore, in particolare, non può essere diagnosticato dai professionisti della sanità, perché non è visibile attraverso i test diagnostici standard. E solo perché non puoi vederlo o toccarlo, non significa che non esista o non sia meritevole di attenzioni. Potrei non essere in grado di perdonare l’ignoranza dei numerosi professionisti che ho incontrato. I pazienti con dolore persistente dovrebbero avere il diritto di essere creduti e trattati come esseri umani che soffrono, con le migliori cure scientifiche disponibili e non respinti come persone pazze.

La mia domanda finale per voi, professionisti della sanità è: non dovreste curare prima di tutto la vostra ignoranza?


Tre consigli

  1. Credi in ciò che raccontano i tuoi pazienti, anche se non puoi vedere il loro dolore attraverso i più comuni test clinici. La scarsa associazione tra i reperti radiografici e il dolore ne sottolinea la complessità multidimensionale e l’importanza di identificare il tipo di dolore prima di pianificare il trattamento.
  2. L’esercizio è un trattamento efficace per il dolore persistente. Un dosaggio e intensità sufficienti dovrebbero essere personalizzati su misura.
  3. Prescrivere i farmaci con saggezza. Accertati che la terapia prescritta segua le correnti evidenze scientifiche a disposizione per il paziente che hai di fronte, senza alcun rischio a breve e lungo termine.