Variabili psicologiche e psicosociali nel dolore cronico: il punto di vista cognitivo-comportamentale

Indice dell’articolo: Fattori psicosociali nel dolore cronicoDepressione e doloreBibliografia Il dolore viene definito dall’Associazione Internazionale per lo studio del Dolore…

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Il dolore viene definito dall’Associazione Internazionale per lo studio del Dolore (IASP) come “un’esperienza sensoriale ed emotiva spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritti in termini di tale danno” (1986).

Il dolore può essere distinto in acuto e cronico: il primo è “…una costellazione di penose esperienze sensoriali, percettive ed emotive che si accompagna a risposte vegetative, psicologiche, emotive e comportamentali” (Bonica,1994). Il dolore acuto si associa solitamente a una lesione identificabile come un danno tissutale, un’infiammazione o un processo patologico. È in genere breve durata e tende a regredire con la guarigione e/o l’allontanamento dello stimolo nocivo. L’intensità del dolore può essere amplificata dagli stati emozionali ma esso non è determinato, salvo rare eccezioni, da componenti primariamente psichiche o ambientali.

Se nella forma acuta il dolore rappresenta un sintomo della patologia, in quella cronica diventa espressione della malattia stessa, perdendo il significato biologico adattivo presente invece nel dolore acuto.  Il dolore può essere considerato cronico quando persiste oltre il normale decorso di una malattia acuta o al di là del tempo di guarigione previsto, se si manifesta o persiste in assenza di cause organiche identificabili, quando si associa a processi patologici cronici e/o evolutivi o ad un disturbo neurologico persistente. Anche quando il dolore ha una componente organica, i fattori psicologici influenzano costantemente la qualità, l’intensità e la durata dell’esperienza dolorosa.(Zanus et al. 2008).


Fattori psicosociali nel dolore cronico

In un’ottica bio-psico-sociale il dolore viene influenzato dalle risposte dell’ambiente, dai comportamenti, dalle variabili culturali e dagli stati emotivi personali. La persona dunque risponde al dolore in base alle proprie caratteristiche emotive e personali, in relazione al suo ambiente e agli apprendimenti consolidati fino a quel momento. Molti comportamenti legati al dolore vengono infatti appresi nell’infanzia e plasmati nell’età adulta. Albert Bandura, con la teoria dell’apprendimento sociale (1962), introduce il concetto di apprendimento per osservazione, in cui l’azione osservata diventa la modalità di acquisizione di nuovi modelli comportamentali.  In particolare, nel caso del dolore, questo può essere creato o amplificato perché osservato in altre persone. Nei bambini ad esempio, l’atteggiamento dei genitori verso il dolore, il trauma e la malattia influenza profondamente il loro comportamento (Craig, 1983). L’autore ha rilevato che bambini di famiglie con una sintomatologia algica, sono maggiormente predisposti a lamentarsi per il dolore (Craig 1978).

Gli stimoli ambientali e il contesto proprio dell’individuo condizionano i comportamenti di dolore. Secondo la teoria dell’apprendimento operante (Skinner; Fordyce) un comportamento (per es. da dolore) quando viene messo in atto, agisce sull’ambiente, il quale può fornire determinati rinforzi. L’aspetto centrale della teoria è che qualsiasi comportamento, compreso quello di dolore, seguito da conseguenze positive, tende a persistere o ad aumentare di frequenza in presenza di segnali che indicano l’imminenza di un rinforzo. I rinforzi sono detti positivi se hanno l’effetto di accrescere la probabilità che un determinato comportamento si verifichi, quelli negativi invece comportano la sottrazione di qualcosa di sgradevole (“negativo” in senso morale).  Un rinforzo negativo  può quindi produrre l’evitamento di situazioni spiacevoli, quali ad esempio un lavoro frustrante, una scadenza che genera preoccupazioni, responsabilità, ecc.

La cronicità fa sì che i comportamenti appresi relativi alla malattia si ripetano e si consolidino. Più lungo è il periodo in cui la condizione morbosa si è manifestata, più rilevante sarà il grado di disuso del precedente repertorio comportamentale e maggiore la ripetizione e il rinforzo di comportamenti di malattia (Ercolani,1997).

Anche le differenze culturali influenzano notevolmente le reazioni alle esperienze algiche. Le evidenze degli studi suggeriscono che la percezione e l’intensità del dolore riportate dai soggetti, variano tra i gruppi etnici (Weisenberg e Caspi, 1989; Faucett et al., 1994; Edwards C.L. Et al., 2001; McCracken et al., 2001; Riley et al., 2002; Green et al., 2003; Green et al., 2004; Portenoy et al., 2004; Chibnall et al., 2005; Watson et al., 2005).  Nello specifico, la reazione al dolore può risultare differente a seconda delle caratteristiche fisiologiche e soggettive dell’individuo ma anche in base al significato culturalmente condiviso. Gli studi sui rituali  e cerimonie di tribù del Centro Africa hanno evidenziato come un altro grado di incentivazione, un eccellente controllo emotivo, la presenza di fattori sociali e culturali di sostegno, possano portare alla neutralizzazione di impulsi periferici nocicettivi (Beltrutti e Lamberto, 1997).  L’analisi dei significati del dolore non può quindi prescindere dal contesto in cui l’esperienza dolorosa viene vissuta.

Il dolore è perciò un’esperienza complessa e multidimensionale, che risulta dall’interazione di componenti cognitive, motivazionali, affettive e sensoriali.

In questo contesto, le caratteristiche psicologiche individuali giocano un ruolo importante nell’esacerbare, sostenere e, a volte, generare il dolore (Zanus et al., 2008). Bandura et al. (1987) hanno riportato che soggetti con alte aspettative di autoefficacia (fiducia che ogni persona ha sulle proprie capacità di ottenere gli effetti voluti con la propria azione), sottoposti a dolore sperimentale, presentavano una maggiore tolleranza al dolore e un aumento degli oppioidi endogeni. Più i pazienti si percepiscono come poco efficaci, meno sarà lo sforzo che sono disposti a compiere e minore sarà il loro livello di funzionalità (Lackner, Carosella, 1999).

Al contrario, se si ritengono in grado di poter interferire personalmente sul proprio dolore, saranno in grado di agire sia sulla percezione di sé in quanto malati sia sull’adozione di adeguate strategie di coping (Crisson e Keefe,1988; Harkapaa,1991). Di fondamentale rilevanza sono quindi le convinzioni dei pazienti sulle cause del dolore, in quanto influenzano l’adattamento emotivo e l’aderenza agli interventi terapeutici.

Un altro aspetto da tenere in considerazione è il costrutto del locus of control.  Con questo termine, si fa riferimento allo stile attribuzionale proprio del soggetto: se interno, si ha la credenza che gli eventi rinforzanti siano dipendenti dal proprio comportamento, mentre se esterno c’è la convinzione che le conseguenze del proprio comportamento dipendano da fattori esterni non controllabili (come il destino, la fortuna, Dio, gli altri).

L’esperienza del dolore cronico, la risposta terapeutica e l’evoluzione prognostica sono condizionate fortemente dal tipo di attribuzione che il soggetto attua nei confronti della causa del dolore e del suo controllo (Crisson e Keefe, 1988). Inoltre, a differenza degli individui con locus of control esterno, i  soggetti con attribuzione interna riferiscono con meno probabilità ed intensità dolorifica l’esperienza algica (Sternbach, 1986).  A seconda che il paziente faccia affidamento su risorse interne a sé o esterne, utilizzerà rispettivamente strategie attive o passive. Le prime rappresentano un tentativo di controllare il proprio dolore (ad esempio con esercizi dati dal fisioterapista) o uno sforzo nel mantenere un buon livello di autonomie nonostante il dolore stesso.

D’altro canto, attraverso strategie passive, il paziente lascia ad altri il controllo del proprio dolore o permette al dolore stesso di influenzare negativamente numerose aree di vita.

Emerge tuttavia che non esiste uno stile di coping funzionale a priori, in quanto le strategie  utilizzate diventano efficaci in base alle situazioni e attraverso una modalità di utilizzo moderato e temporaneo. Infatti, strategie attive che potrebbero essere considerate generalmente positive, diventano disadattive se usate in maniera esclusiva (Zeidner e Saklofske, 1996).

Un altro aspetto peculiare del dolore, consiste nel catturare e trattenere l’attenzione, interferendo con l’azione organizzata e il pensiero razionale. Orientare selettivamente l’attenzione verso uno stimolo può amplificare l’intensità della percezione dello stimolo stesso: in particolare, uno stimolo nocivo viene percepito in maniera più intensa se l’attenzione è focalizzata sul dolore; al contrario, la percezione algica sarà notevolmente ridotta se il focus attenzionale è spostato su aspetti esterni. Su tali assunti, è stato introdotto l’uso di strategie cognitive di controllo del dolore.

Lo psicologo nel dolore cronico

Depressione e dolore

Nonostante sia ancora controversa l’esatta natura della relazione tra depressione e dolore, la depressione è stata spesso documentata sia nell’esperienza del dolore cronico (Turner e Romano,1984; Roy et al., 1984) che nella risposta dei pazienti ai trattamenti (Mendelson, 1991; Blanchard, 1992).

In ambito clinico è possibile distinguere due principali forme di coesistenza tra dolore cronico e depressione: in alcuni pazienti, il dolore è il sintomo psicosomatico della depressione primaria, mentre in altri la depressione si manifesta secondariamente al protrarsi del dolore (Zanus et al. 2008). Il dolore cronico può perciò essere in grado di causare la depressione, tuttavia è altrettanto probabile che alcuni pazienti si lamentino di dolore persistente, in quanto affetti da Depressione Maggiore. La Depressione Maggiore è un disturbo con sintomatologia varia (affettiva, cognitiva, motivazionale, comportamentale e fisica) e talvolta si può manifestare quasi interamente in termini di disturbi somatici (cefalea, sciatica, dolori lombari, facciali,ecc.). Secondo Katon e al. (1982), la prevalenza di sintomi somatici nella depressione deriva dalla focalizzazione attentiva agli stimoli fisici, processo che viene appreso dagli individui durante l’infanzia. La cultura e i sistemi di valori dell’ambiente familiare di questi soggetti, tendono infatti a valorizzare l’espressione di disturbi somatici, trascurando gli aspetti emotivi ed affettivi.

Tuttavia, non tutti i pazienti con dolore cronico sviluppano depressione. Rudy et al. (1988) sostengono che il prerequisito fondamentale nello sviluppo di una sintomatologia depressiva sia la percezione da parte del paziente di una riduzione delle abilità strumentali, accompagnata da un abbassamento delle abilità di controllo e di padronanza di sé. Zanus e Dettin, in uno studio condotto presso il Servizio di Terapia Antalgica dell’Ospedale di Vicenza (1985), notarono che ad un minor grado di autonomia e attività fisica e lavorativa, corrispondeva un’elevazione dei livelli di depressione: l’instaurarsi del ruolo di ammalato, la conseguente condizione di dipendenza ed impotenza e la presenza di vantaggi secondari, rinforzavano il comportamento connesso con la malattia e la conseguente disabilità.


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