Sindrome Miofasciale

Il dolore miofasciale è un popolare modello utilizzato per spiegare il dolore muscolare senza una causa specifica. Vediamone i dettagli.

dolore miofasciale
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Spesso ogni giorno in clinica entriamo a contatto con pazienti che lamentano la classica “sindrome miofasciale”, evocabile alla palpazione, in assenza di una chiara causa che lo giustifichi. Per questo è importante esplorare le possibili cause, la prognosi e i trattamenti per questa condizione.


Cos’è la sindrome miofasciale?

La sindrome miofasciale (myofascial pain syndrome: MPS) è un popolare modello utilizzato per spiegare il dolore muscolare senza una causa specifica1, concepito da Travell e Simons nel 1983 4. Gli autori definiscono il dolore miofasciale come un dolore regionale, caratterizzato dalla presenza di uno o più trigger point. Un trigger point è definito dagli autori come un nodulo iper-irritabile contenuto nelle fibre dei muscoli scheletrici. Il nodulo palpabile, conosciuto anche come taut band, è descritto come un numero limitato di fibre con una stiffness aumentata. Il trigger point può produrre dolore locale o riferito, sia alla compressione manuale, sia spontaneamente2,3, se stimolato può produrre una fascicolazione muscolare definita twitch response5.

I trigger point si possono manifestare in due stati differenti: latente e attivo. Nello stato latente il punto trigger non causa dolore spontaneo e il dolore si manifesta solo con l’applicazione di una vigorosa pressione digitale. Nello stato attivo, il trigger point è responsabile del dolore percepito dal paziente, alla palpazione manuale riproduce i sintomi del paziente e, in alcuni casi, risposte autonomiche come rossore della pelle, sudore e dizziness.6

È importante però sottolineare come la definizione appena descritta sia solo una teoria. Se andiamo a vedere l’ultimo documento della IASP per l’inquadramento diagnostico delle varie tipologie di dolore11,

notiamo come non esista il termine “dolore miofasciale”, esso infatti non è un’entità riconosciuta dalla comunità scientifica internazionale. Nel documento compare però il termine dolore miofasciale temporomandibolare, una sottocategoria dei dolori temporomandibolari cronici.

Tutto ciò non per confondere il lettore, ma per renderlo cosciente che stiamo parlando di un argomento ancora molto dibattuto e di cui non abbiamo ancora nessuna certezza


Cosa dice la letteratura scientifica?

Da tempi si dibatte in letteratura scientifica sulla eziologia e sull’esistenza della sindrome Miofasciale e dei Trigger Point, pensate che il primo articolo che parla di punti dolorosi muscolari è del 1943!7

Dal 1983 in poi la Teoria dell’esistenza dei Trigger Point e del dolore Miofasciale sale alla ribalta grazie ai medici Janet Graham Travell e David Goodman Simons. Travell era il medico personale di John F. Kennedy, il quale soffriva di fortissimi dolori alla schiena in seguito a interventi invasivi in zona lombare.

Questo modello è stato abbracciato da molti autori ed è stata prodotta tanta letteratura in merito, senza però arrivare mai con chiarezza a definirne criteri diagnostici, a conferme su modelli animali o a trattamenti specifici1. Nonostante questo, sono stati sviluppati tantissimi corsi per studiare le mappe anatomiche dei trigger point e come trattarli.

È importante citare una famosa critica al modello del dolore miofasciale, condotta da Quintner e Cohen12 i quali hanno proposto un modello alternativo, ipotizzando che l’esistenza di punti trigger all’interno del muscolo non sia di eziologia muscolare, quanto di eziologia nervosa.

Essi hanno infatti ipotizzato che l’infiammazione focale di un nervo periferico possa risultare nella formazione spontanea o evocata meccanicamente di potenziali di azione nelle fibre di piccolo calibro che innervano le strutture non cutanee. Inoltre può portare a una diminuita scarica simpatica(-). Questo processo può causare un riflesso motorio tale da causare una contrazione palpabile, che combinata con il fenomeno clinico associato alla infiammazione neurogenica(+), può spiegare il fenomeno clinico conosciuto come” trigger point”.

Anche questa rimane comunque una teoria che necessita di solide conferme scientifiche per essere confermata.

La cosa interessante della seconda teoria è che non nega l’esistenza dei trigger point come fenomeno clinico (ovvero dei punti all’interno del muscolo che se stimolati elicitino dolore locale e/o riferito) ma nega il fatto che i trigger point causano la sindrome miofasciale e qui è il punto. Infatti, i trigger points si possono considerare come:

  1. causa primaria di una specifica sindrome definita sindrome miofasciale. In questo caso più che sindrome sarebbe più giusto utilizzare il termine “malattia o patologia miofasciale”, poiché se accettiamo che vi sia una causa specifica che causi il verificarsi di determinati segni e sintomi usciamo dal dominio della sindrome ed entriamo in quello della patologia10.
  2. forma di allodinia secondaria muscolare. Sia che sia causata dall’infiammazione del nervo periferico come supposto da Quintner sia che le cause siano altre.

Questa distinzione fa tutta la differenza del mondo, poiché nel primo abbiamo una patologia con una causa specifica, rimuovendo la causa (i trigger points) risolviamo il problema.

Nel caso invece in cui ci troviamo di fronte ad una sindrome (ovvero una serie di segni e sintomi) che possono scaturire da diverse patologie, l’obiettivo non sarà tentare di rimuovere il trigger point, poiché, non essendo la causa primaria, la sua rimozione non porterà alcun beneficio a lungo termine.

Considerando le moderne scoperte sulla neurofisiologia del dolore pare difficile pensare che la causa di un dolore muscolare non neuropatico possa sempre essere riscontrata solamente nel tessuto muscolare, inoltre comunicare ai pazienti che la causa risiede solo nel muscolo e che verrà rimossa con il nostro trattamento può rinforzare l’idea fallace che dolore equivale a danno13. A supporto di questa tesi si è visto come sono presenti diversi articoli che mostrano come ci sia una correlazione tra i trigger point, la depressione e l’ansia14,15, suggerendo quindi la l’esistenza di altri meccanismi di dolore che sottendono i dolori miofasciali.


Come trattare la sindrome miofasciale?

Vari metodi per il trattamento della sindrome dolorosa miofasciale sono stati proposti in letteratura, ma non vi sono ancora linee guida, per questo motivo il clinico per scegliere il trattamento migliore deve bilanciare le evidenze, le aspettative del paziente e la sua esperienza clinica.6

In generale sono state proposte diverse strategie di trattamento come il: dry needling, iniezioni di anestetici locali e strategie non invasive come la terapia manuale, la TENS o le onde d’urto focali.

Revisioni sistematiche sull’utilizzo del dry needling per il trattamento dei trigger point dimostrano come non vi sia evidenza che questo tipo di terapia abbia un effetto specifico16, 17, Questo vale anche per le altre terapie non invasive18. Vi sono comunque revisioni sistematiche che dimostrano un maggiore effetto dell’utilizzo del dry-needling rispetto allo usual care nel immediate/short term per il trattamento dei trigger point19,20 Seppur presentino alto rischio di bias gli studi sperimentali sui quali le revisioni si basano.

È importante ricordare che l’effetto di ogni trattamento è determinato anche da fattori contestuali e che più invasivo sarà il trattamento, maggiore sarà l’effetto placebo.21 Appare quindi ragionevole che l’effetto non specifico a breve termine sarà maggiore per interventi come il dry needling o l’iniezione di botulino rispetto a la terapia manuale o spray and stretch. Spesso i pazienti rimangono colpiti da trattamenti invasivi e se le doti comunicative del terapista sono buone, non è difficile aumentare ulteriormente gli effetti contestuali del trattamento, aumentando le aspettative positive del paziente.

Il punto fondamentale è che tutte le terapie proposte per il trattamento della sindrome dolorosa miofasciale hanno un tratto in comune: provocano stimoli nocicettivi.

È risaputo che nel caso io abbia dolore in un punto A, se creo uno stimolo nocicettivo intenso nel punto B (anche in punti distanti del corpo) e vado a ritestare il dolore percepito nel punto A, il dolore nel punto A questa volta sarà minore22. Questo meccanismo viene definito “conditioned pain modulation”. Questo fenomeno è spiegato da diversi processi livello del sistema nervoso centrale come:

  1. il DNIC (diffuse noxious inibitory control), ovvero un loop spino-bulbo-spinale che porta a una inibizione dei wide-dynamic-range neurons nel corno dorsale del midollo spinale23,24.
  2. L’inibizione Top-down mediata dal PGA (Periacqueductal gray matter e dal RVM (Rostral ventromedial medulla) i quali regolano la produzione di oppioidi endogeni25
  3. Il release centrale di oppiodi endogeni in regioni sensibili del cervello che si attivano durante un dolore sostenuto26.

È importante sottolineare che tutti i meccanismi prima descritti hanno un effetto a immediato/ breve termine e che gli stessi effetti a breve termine possono essere raggiunti ingerendo bevande alcoliche27

Questo ci spinge a pensare che più che concentrarci sul tipo di trattamento specifico, sia più utile pensare al meccanismo reale che sta dietro al trattamento che svolgiamo (e non al meccanismo suggerito dal guru di turno). Ricordiamoci che possiamo ricavare tante informazioni dalla risposta dei pazienti ai nostri trattamenti se ne conosciamo il reale effetto. Ad esempio, diversi studi riportano come in buona parte dei pazienti con dolore persistente, i meccanismi di modulazione discendente sopra citati siano disfunzionali 28,29


Conclusione

Le evidenze ci spingono a pensare che la sindrome dolorosa miofasciale sia come le confezioni delle sorprese degli ovetti kinder: da fuori sembrano tutte uguali, ma il contenuto è sempre diverso.

Se vogliamo fermarci alla confezione senza considerare il contenuto possiamo farlo e gli strumenti li conosciamo: causare dolore al paziente, usare interventi invasivi, magari accentuando la ritualità dell’intervento e facendo pagare bene la seduta. Una buona idea può essere utilizzare dry needling o onde d’urto con guida ecografica per il trattamento dei trigger point.

Se vogliamo invece andare al contenuto, è opportuno studiare meglio i meccanismi che sottendono il dolore, in un framework che dia attenzione anche ad altri variabili come il livello di fitness, le cognizioni del paziente, i fattori emotivi, sociali, lavorativi, il coping e i comportamenti relativi al dolore.

Il tutto ricordandosi che non è utile essere rigidi con i pazienti, che partire dal considerare solo la confezione (la sindrome dolorosa miofasciale) può essere utile a volte, nei pazienti con forti cognizioni errate per guadagnare la fiducia del paziente. Una volta acquisita la fiducia del paziente è doveroso spostarsi verso un approccio diverso, verso una fisioterapia di qualità.