Fear Avoidance Model: il modello di evitamento

In questo articolo andiamo a vedere insieme il fear avoidance model, in italiano modello da evitamento.

fear avoidance model
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Fabio, se c’è una cosa che non posso fare è correre. Non lo farò mai più. Tutti i medici che mi hanno visitato me l’hanno sconsigliato, la mia schiena non reggerebbe gli urti. Se vedessi arrivare da lontano il tram che devo prendere, piuttosto di correre arriverei in ritardo o prenderei un taxi.

Questo è ciò che mi ha riportato un paziente (38 anni) che soffre di dolore persistente lombare alla richiesta di fare 5 minuti di riscaldamento sul tapis roulant. È una situazione che vi è familiare? Quanti nostri pazienti hanno paura di fare certi esercizi, certe attività o sport! Cosa è andato storto nel loro percorso? La paura gioca un qualche ruolo rilevante per il loro dolore?

Possiamo aiutare queste persone a tornare alle proprie attività, a quelle a cui tengono davvero o le releghiamo ad una vita di stretching, nuoto e pilates?

Per rispondere a tutte queste domande ci faremo aiutare dal fear-avoidance model.


Cos’è il Fear Avoidance Model?

Il modello biomedico ha chiaramente fallito nel fornire una spiegazione o una risoluzione del dolore persistente. Negli ultimi decenni infatti si è giunti alla conclusione che il dolore è un fenomeno complesso e multifattoriale (1)⁠ e va trattato come tale, nelle sue varie sfaccettature. La paura del movimento è certamente una fetta grossa nella torta del dolore ed è per questo che Vlaeyen e colleghi nel 1995 realizzano il fear avoidance model per il mal di schiena persistente (2)⁠.

Secondo questo modello, di fronte ad un episodio di dolore, e quindi ad una esperienza dolorosa, va a crearsi un bivio. Da un lato il paziente potrebbe sviluppare paura del dolore, evitare le attività che lo provocano, che lo hanno generato o addirittura qualunque tipo di attività. Questa scelta però scaturirà nella disabilità, nella depressione o comunque frustrazione per la cessazione delle attività, e verosimilmente in un peggioramento delle qualità biologiche dei tessuti, oramai sottoutilizzati. Sappiamo che questi 3 elementi contribuiscono in senso negativo all’esperienza dolorosa (3–5) e di conseguenza si creerà un circolo vizioso in cui il paziente eviterà sempre di più e peggiorerà continuamente.

Dall’altro lato, se il paziente non è spaventato dal dolore può gradualmente riprendere o modificare le proprie attività, seguendo quindi una strategia più di confronto che di evitamento, arrivando così al recupero dalla propria situazione.

Un aspetto chiave di questo modello riguarda l’interpretazione del paziente rispetto al proprio dolore. Pazienti con pensieri catastrofici, spaventati da informazioni ricevute dall’esterno (e sì, sto proprio parlando del classico “hai un ernia, se corri la vai a schiacciare” e affini) o che pensano di non avere un qualche tipo di controllo sul dolore, è più probabile che inizino ad evitare l’attività fisica per timore di peggiorare. Questo potrebbe ridurre le esperienze positive, portare ad isolamento sociale e aumentare il distress emotivo.

Non stupirà quindi che i pazienti con alti livelli di paura hanno un maggior rischio di sviluppare dolore cronico, alti livelli di disabilità e una maggiore probabilità di perdere giorni di lavoro o il lavoro stesso (6)⁠.

fear avoidance model
Illustrazione del modello da evitamento, in inglese fear avoidance model. La persone che incontra un episodio di dolore acuto può interpretarlo positivamente utilizzando un approccio attivo e raggiungendo il pieno recupero oppure andare incontro a paura ed evitamento e facilitare la persistenza del dolore.

Applicazioni cliniche del modello da evitamento

Adesso capiamo in che modo il fear avoidance model possa venirci in aiuto nella pratica clinica.

Innanzitutto è un ottimo strumento di comunicazione. Se ci pensate fornisce una prospettiva interessante al paziente, una prospettiva che va a spiegare quanto i pensieri, le emozioni, il comportamento e anche, come dimenticarli, i tessuti, possano influenzare l’esperienza dolorosa. Se selezionate il paziente adatto, quest’ultimo riuscirà a rileggere la sua storia secondo questa prospettiva e magari nasceranno spunti per il trattamento o spiegazioni sul perché trattamenti passati sono stati inefficaci. Capire che il dolore è multifattoriale mi sembra un grande passo. Potrebbe quindi essere utile mostrare al paziente questa immagine e capire assieme quali attività sono state evitate a causa del dolore. A questo punto sarà possibile porsi degli obiettivi e stilare un piano per la ripresa graduale delle attività. Questo tipo di approccio sembra essere particolarmente efficace per ottenere risultati nel lungo termine nel dolore persistente (7)⁠.

Misurare la paura e l’evitamento è un ulteriore aspetto da considerare. A questo punto si apre un ventaglio di possibilità. Si può utilizzare una misura di outcome specifica, ovvero la Fear Avoidance Beliefs Questionnaire o la Tampa Scale of Kinesiophobia, dimostratisi affidabili e associate a maggiore disabilità (8)⁠; oppure è stato dimostrato che i singoli item che valutano la paura della scala Orebro o Start Back Screening Tool correlano bene con le scale specifiche (9)⁠. Per questo motivo, se il tempo è poco, potete utilizzare anche solo quelle singole domande per farvi un’idea del grado di paura del vostro paziente. Se si ottiene questo dato potremo dare delle informazioni prognostiche importanti per il paziente, visto che la paura è un predittore di disabilità nelle situazioni acute (10)⁠ e mediatore nelle situazioni persistenti (11)⁠. Oltre a ciò abbiamo individuato un fattore modificabile importante su cui indirizzare il nostro amato trattamento multidimensionale.

Nei pazienti con dolore persistente la lotta al sintomo è una battaglia molto difficile, difatti tutti i trattamenti disponibili, che siano esercizi, educazione, terapia manuale, terapie cognitive mostrano spesso piccoli benefici sotto questo aspetto e ancor più spesso questi benefici si limitano al breve termine (3,12)⁠. La disabilità è invece un outcome su cui davvero noi fisioterapisti possiamo fare la differenza (13)⁠ e, sebbene il fear-avoidance model non prenda forti posizioni sulla disabilità, quest’ultima è il motivo principale per cui i pazienti si rivolgono a noi (14). Se modifichiamo la paura possiamo far uscire il paziente da questo circolo vizioso e indirizzarlo verso il recupero della propria vita. Non tenerla da conto e non trattarla potrebbe risultare un scelta sbagliata, visto che la paura è un importante mediatore del miglioramento in diversi tipi di trattamento (15,16).


Conclusione

Il fear avoidance model è uno strumento utile nel nostro campo, ci permette di condividere con il paziente un linguaggio comune e dare un senso al suo dolore. Se individuiamo pazienti con alti livelli di paura abbiamo l’occasione di far tornare il paziente alle proprie attività, modificare la traiettoria della disabilità, migliorare la prognosi del paziente e la sua qualità della vita.

Nessun timore, riconosciamo alla paura il ruolo che si merita nella nostra pratica!