Kinesiofobia: la paura del movimento

Facciamo una panoramica generale sulla kinesiofobia, per capire come possa essere implicata nella gestione del dolore.

kinesiofobia
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Quando parliamo di dolore come esperienza multifattoriale, non possiamo dimenticarci della kinesiofobia, una delle yellow flag che ha ricevuto più attenzione dalla ricerca negli ultimi decenni. Cercheremo di capire che ruolo ha nel dolore muscolo-scheletrico, quali sono i dati a supporto della sua valutazione e trattamento e qualche spunto pratico sul trattamento vero e proprio.


Cos’è la kinesiofobia?

Ok, l’etimologia è facile, dal greco kínesis  (movimento) + phóbos (paura), quindi apparentemente, una buona traduzione potrebbe essere la “paura del movimento”. In letteratura spesso i termini “fear of movement” e “kinesiophobia” vengono utilizzati in maniera intercambiabile, tuttavia la kinesiofobia dovrebbe essere letta come una forma estrema di paura del movimento, “una paura intensa e irrazionale nell’esecuzione di un movimento, dovuta ad una sensazione di vulnerabilità rispetto ad un episodio doloroso o a un re-infortunio” (1).

La paura riguarda una reazione emotiva ad una minaccia reale o percepita (vi ricorda qualcosa?) e può essere chiaramente appresa. L’apprendimento della paura segue il condizionamento classico, per cui quando uno stimolo avverso non-condizionato viene ripetutamente accompagnato da uno stimolo neutro condizionato, allora si acquisirà paura rispetto a quest’ultimo (2)⁠. Negli umani la paura può essere appresa anche secondo altri meccanismi, quali l’osservazione di altri individui (3)⁠ o le istruzioni verbali (4)⁠. Per enfatizzare questo concetto vorrei farvi ragionare sul fatto che il nostro è un ambito in cui la paura è davvero invadente. Pensate a quante volte avete avuto discussioni con persone sane su che postura sia giusto mantenere, quale attività rovinino le articolazioni o quale sia il movimento corretto per l’esercizio in palestra. A ragion di questo, il lavoro di Caneiro del 2018 (5)⁠ e altri studi (6)⁠ hanno evidenziato quanto anche soggetti sani percepiscano come pericolose e temano a livello implicito/inconscio attività che si credono portare stress alla schiena (piegarsi con la schiena curva).

La paura e il suo apprendimento sono chiaramente dei meccanismi fisiologici e utili, visto che permettono di identificare una potenziale minaccia (per esempio il dolore) e iniziare un comportamento difensivo appropriato (per esempio la fuga), in modo da proteggerci da un potenziale danno. Tuttavia capirete che sul lungo andare questa strategia diventa controproducente e porta ad una generalizzazione della paura, per cui si inizia a temere ed evitare stimoli che non implicano alcun rischio (7)⁠.

I pazienti kinesiofobici si muovono in maniera diversa rispetto ai sani, cercando di preservare la zona lombare, con movimenti più lenti, poco variabili e con maggiore rigidità (8–10). Se parliamo di mal di schiena la paura porterà ad avere una schiena meno sana, meno versatile, forte e mobile, oltre al chiaro problema di evitamento che spesso insorge e di cui abbiamo parlato in un blog precedente.

I dati sul ruolo della kinesiofobia variano nelle diverse patologie muscoloscheletriche, sebbene comunque sembra emergere che sia un aspetto importante da valutare e trattare. Per esempio, nel dolore al ginocchio e nel colpo di frusta questa variabile non sembra essere importante per il decorso di dolore e disabilità (11,12), mentre svolge un ruolo fondamentale nel Return To Sport a seguito di intervento di ricostruzione del legamento crociato (13)⁠ e risulta associata a, nonché predittiva di livelli maggiori di dolore e disabilità nel dolore alla spalla (14)⁠. Pazienti con alti livelli di paura del movimento, inoltre, ottengono risultati significativamente peggiori in termini di funzionalità e dolore in diversi contesti post-chirurgici, come nella protesi totale di ginocchio (15), nella chirurgia dell’ernia lombare (16) o nelle operazioni di cuffia (17)⁠.

kinesiofobia nel dolore cronico

Trattamento della kinesiofobia

Il primo consiglio che mi viene da darvi è: fate in modo di non essere voi stessi kinesiofobici. Questo sembrerà scontato, ma sappiamo che le credenze dei fisioterapisti sono in grado di influire sulle credenze dei pazienti (18,19) quindi è importante che noi stessi non trasmettiamo messaggi negativi o insicurezza. Se voi stessi avete paura del dolore o del movimento come sperate che il vostro paziente non ne abbia? Questo significa a volte accettare dolore durante l’esercizio: se ogni volta che il paziente ha dolore mentre fa un esercizio siamo inclini a cambiarlo o evitarlo allora non stiamo facendo altro che rinforzare un concetto che vogliamo fargli sparire dalla testa. La scienza del dolore ci sta insegnando dei concetti importanti a questo riguardo: il dolore non è un danno, muoversi con dolore è sicuro, avere dolore durante gli esercizi non significa che il paziente non recupererà e… ho già detto che il dolore non è un danno? La ricetta per ottenere questa sicurezza da passare al paziente consiste nel conoscere bene il dolore e i meccanismi che lo sottendono, conoscere la letteratura per rassicurare i pazienti su che attività o movimenti possono fare senza incorrere in problemi. Può essere anche utile conoscere magari il decorso naturale della patologia o dopo quanto aspettarsi certi miglioramenti, in modo da settare aspettative realistiche e infine sapere come gestire i flare-up (le riacutizzazioni).

Dal punto di vista più pratico, per il trattamento della kinesiofobia ci facciamo aiutare da questa revisione di Martinez-Calderon del 2019 (20)⁠. L’esercizio, come in altri contesti, ci dà un grande aiuto. Assieme ad esso sembra comunque che terapie di impronta più psicologica (terapia cognitivo-comportamentale) o interventi multimodali possano in qualche modo dare un loro contributo. L’esercizio, secondo alcune interpretazioni, può essere visto come una forma di violazione dell’aspettativa o come esposizione graduale, per quanto riguarda la paura. Questi due meccanismi sono le due principali modalità da seguire per il trattamento anche di altre fobie.

Da un lato possiamo seguire la strada dell’esposizione graduale. A tale scopo possiamo chiedere al paziente di stilare un lista delle attività/movimenti temuti, e di metterli in ordine dal più al meno problematico. Scritta questa lista si può prendere l’attività meno problematica e cominciare da quella, discutere con il paziente in che modalità e secondo quali criteri iniziare a confrontarsi con essa. Pianificate tutto in maniera precisa, pensate a come cambiare il piano sia che l’”esperimento” vada bene, sia che vada male. Se l’esperimento fa raggiungere l’obiettivo prefissato (ho camminato 5 minuti senza che il dolore peggiorasse), allora avete trovato il punto di partenza e potete progredire (la prossima volta ne camminerò 6), in caso contrario si farà un passo indietro (ma come accordato precedentemente!). Partite comunque con obiettivi facili, per il paziente potrebbero comunque sembrare insormontabili, ma una volta superati guadagneranno grande fiducia; in secondo luogo per progredire c’è sempre tempo, meglio quindi stare attenti ai flare-up!

L’esposizione graduale si è vista essere efficace nel trattamento della paura e del dolore (21,22), tuttavia, alcune prove sperimentali suggeriscono che la violazione dell’aspettativa potrebbe essere una strategia ancor più efficace (23)⁠. Questo significa massimizzare la discrepanza tra risultato atteso e risultato effettivo. Sarà importante chiedere al paziente come si sente rispetto ad uno specifico movimento/attività, quanta ansia/disagio/paura prova e quale potrebbe essere la peggior situazione possibile che potrebbe presentarsi. Per esempio se un paziente lombalgico ha paura di flettersi (“mi hanno detto che è pericoloso, la mia schiena potrebbe spezzarsi in due”) potremmo chiedergli di provare il movimento a 4 zampe o da seduto, per poi verbalizzargli e mostrargli l’enorme divario tra l’outcome atteso e ciò che effettivamente succede. Questo tipo di istruzioni durante l’esposizione alla situazione percepita minacciosa sembra essere ottima per alcuni contesti (24)⁠, tuttavia abbiamo una carenza di studi in ambito fisioterapico, quindi potremmo dire che sia esposizione graduale che violazione dell’aspettativa potrebbero essere strategie equamente valide.

Che dire dell’educazione al dolore? Ho una brutta notizia per voi, un po’ come succede per il nocebo vs placebo, le informazioni che derivano dall’esterno sono una importante sorgente nell’acquisizione della paura, ma sono deboli per la sua estinzione (3)⁠. I dati a supporto della Pain Neuroscience Education non sono brillanti, tuttavia mostrano di apportare un certo grado di miglioramento, soprattutto nel breve e medio termine, della kinesiofobia (25). Per la gestione della parte educativa vi riporto un’interessantissima proposta di Samantha Bunzli e colleghi per i pazienti con mal di schiena e paura del movimento (26)⁠. Quando una persona va incontro ad un episodio di mal di schiena, ne costruisce una rappresentazione cognitiva che consta di 5 elementi (26)⁠:

  • Cos’è questo dolore? (identità)
  • Cosa lo causa? (causalità)
  • A che conseguenze porta questo dolore? (conseguenze)
  • Quanto posso controllarlo? (controllo)
  • Quanto durerà? (tempo)

Se ci pensate molte delle paure dei nostri pazienti riguardano questi domini, influenzati dalle esperienze pregresse e dal contesto socio-culturale. Questa rappresentazione cognitiva è fondamentale, perché da essa dipenderà il modo in cui il paziente agirà per fronteggiare la situazione. È intuitivo che se vengono a mancare rappresentazioni cognitive adatte ad un adeguato problem-solving, il comportamento sarà dettato solo dalla risposta emotiva al dolore (in questo caso…la paura!).

È utile quindi andare ad indagare quali possano essere le lacune, le discrepanze e le incomprensioni nella rappresentazione cognitiva del paziente che abbiamo di fronte, in modo da fargli anche capire come questa possa impattare l’esperienza dolorosa e che questa potrebbe dover essere modificata nel processo di cura. Potreste chiedere ai pazienti di raccontarvi in maniera più dettagliata gli incontri con altri professionisti, in modo da capire la stabilità delle credenze e capire da dove è nata questa confusione. Se il paziente teme il movimento per credenze biomeccaniche bisognerà indirizzarlo verso una visione di “sensibilizzazione” del sistema nervoso. Per il controllo sarà utile porsi degli obiettivi e stilare un programma concordato con il paziente, come detto sopra, possibilmente con un piano d’azione o delle strategie di gestione in caso il dolore peggiori. Avete occasione di rimodellare, di colmare e perfezionare la rappresentazione del paziente, in modo da ottenere un comportamento adeguato alla risoluzione del problema, senza farlo ricadere nel loop del Fear Avoidance Model.


Conclusione

La kinesiofobia rappresenta quindi un’estrema paura del movimento e il fisioterapista svolge un ruolo decisivo nel suo trattamento. In sintesi, la kinesiofobia può essere attaccata da più fronti, utilizzando una commistione di interventi comportamentali (esposizione graduale e goal setting), cognitivi (educazione al dolore e modifica della rappresentazione cognitiva del problema) e di esercizio.

Sebbene il miglioramento della kinesiofobia non determini sempre una riduzione del dolore, pensate a quanto questa può impattare la disabilità, il tono dell’umore e la qualità della vita del paziente. Se a parità di dolore si riesce a riprendere tutte le proprie attività…beh siamo di fronte ad un ottimo risultato.

Non dimenticatevi che la fisioterapia, come dice il buon Louis Gifford, non è altro che “un ritorno al movimento senza pensieri e senza paura”!